Civil War (2024), recensione in anteprima: un’analisi sulla fotografia di guerra

Come si può guardare la morte, la violenza, il sopruso di un umano su un altro e non fare nulla per salvarlo? Civil War, il nuovo film di Alex Garland, risponde a queste domande, mostrando l’etica del fotogiornalismo e, nello specifico, dei fotoreporter di guerra.

Il fotogiornalismo di guerra è un genere fotografico che nasce con la guerra di Crimea, sviluppatosi poi con la guerra di secessione americana, la guerra civile spagnola, la Seconda guerra mondiale, etc. Il primo scopo utile era quello di mostrare fotografie che non ritraessero effettivamente scene di violenza, infatti, se andiamo nel repertorio di Roger Fenton, ciò che si vede e si sente di più è la desolazione dei luoghi di guerra e delle truppe di soldati. Solo successivamente la violenza è entrata a far parte di questo genere fotografico e, assieme ad essa, è arrivato un grande dilemma cruciale: è giusto scattare foto nel momento in cui un altro essere umano sta soffrendo?

Se dapprima il fotoreporter aveva il compito di piegare il volere di chi osservava le foto, parteggiando per una parte o per l’altra, il caso della guerra in Vietnam viene ricordo come uno dei momenti cruciali, in cui l’opinione pubblica è stata gravemente scheggiata dalle foto scattate dai fotografi lì presenti, perché hanno cominciato a mostrare una violenza che dall’altra parte del mondo si ignorava, o quantomeno si era deciso di ignorare. Da questo evento cruciale per la storia del fotogiornalismo, il compito del fotoreporter ha preso un’altra rotta, quella del testimone oculare.

Una delle critiche che ho già visto muoversi nei confronti di questo film riprendono proprio questo problema etica, ma andiamo per gradi.

Il film di Garland presenta un’America divisa a metà, in una vera e propria guerra di secessione. Ovunque c’è il caos. Il film si apre proprio con il presidente che, in una conferenza stampa, dice che sono vicini alla vittoria e mentre parla ci vengono mostrate rivolte violente, sparatorie continue, c’è un terrore palpabile nell’aria. Garland non esita nemmeno un momento a fiondarci nelle atmosfere di agitazione e preoccupazione. In questo caos, tre giornalisti, Lee (Kirsten Dunst), Joel (Wagner Moura) e Sammy (Stephen McKinley Henderson) vogliono tentare una mossa pericolosamente azzardata: arrivare alla Casa Bianca prima che ci sia un crollo definitivo del presidente, che incoraggia a continuare questi massacri, e farlo testimoniare arrivando, possibilmente, prima che le Forze Occidentali lo conducano alla morte. In questo viaggio, si affianca una giovane fotografa, Jessie (Cailee Spaeny), il cui sogno più grande è proprio diventare come Lee, il suo idolo. Le due si incontrano per caso in una rivolta violenta, in cui Jessie viene ferita perché si era avvicinata troppo ai colpi dei poliziotti. Lee le va in soccorso e le da il gilet da giornalista, che dovrebbe garantirle un po’ più di sicurezza in situazioni disastrose. Jessie, successivamente la segue nell’hotel in cui di solito vanno i fotogiornalisti per spostarsi per lavoro. Il giorno dopo, pronti per partire, Lee scopre che anche Jessie è nella macchina, pronta per unirsi al loro viaggio, e Joel le spiega che l’avevano incontrata la sera prima e che li aveva convinti con i suoi ideali positivi sul voler mostrare la verità di questa guerra. Lee è preoccupata per la sorte della ragazza, che potrebbe arrivare a rischiare la vita, visti i luoghi pericolosi in cui vogliono addentrarsi, ma alla fine cede, perché in qualche modo si rivede in lei quando aveva venti anni. Il viaggio quindi prende forma e sarà continuamente una prova, non solo per i personaggi del film, ma anche per noi spettatori, che ci ritroveremo più e più volte con il fiato in gola e la paura effettiva che uno di loro possa morire.

L’universo che crea Garland non è un universo molto lontano dal nostro presente, anzi, si conferma come un titolo che rientra completamente nei problemi attuali della nostra società e nella facilità con la quale si entra in guerra con altri paesi. Qui vediamo uno Stato completamente sfibrato e un popolo che non ha alcuna fiducia nel Presidente degli Stati Uniti d’America, anzi, lo vorrebbero morto.

Tra zone deserte e visivamente apocalittiche (autostrade con macchine abbandonate che ricoprono quasi tutto il percorso e che rendono difficile il passaggio, fuochi che scoppiano nel cielo ogni notte, di continuo; cecchini pronti a sparare a visti a chiunque si addentri nei territori vicini alla Casa Bianca) i quattro fotogiornalisti si ritroveranno in situazioni abbastanza scomode e la prima cosa che vedremo sarà la loro fede cieca nel fotogiornalismo.

Lee diventa la mentore di Jessie, che è la stessa voce della società, quella che per anni, anche dopo la guerra del Vietnam, ha creato movimenti contro il lavoro del fotoreporter, “come puoi pensare di scattare una foto a un uomo che viene massacrato da altri?”. Quello che la maggior parte delle persone faticano tuttora a comprendere è che il lavoro del fotogiornalista di guerra è quello di documentare tutto quello che accade e trattandosi di scene cruente, è normale che siano quelle le foto che verrano pubblicate e trasmesse; è importante ricordare che è l’unico modo, per loro, per far arrivare le informazioni al di là di quei confini che altrimente non verrebbero mai a conoscenza della verità. Inoltre, la vita dei fotogiornalisti è messa a rischio ogni secondo, perché anche se dovrebbero avere una sorta di incolumità, grazie ai caschi e all’abbigliamento protettivo con scritto press, questo non è assolutamente sufficiente. Se ti trovi sulla linea di tiro, chiunque tu sia, perdi la vita in un nanosecondo.

“They re moving to DC today.” “We need to go down there.” “They shoot journalists on sight in the capital. Every instinct in me says death.”

Questo non vuol dire che, paradossalmente parlando, molti fotogiornalisti continuano a fare questo lavoro per la scarica di adrenalina immediata che da il poter fotografare eventi così importanti, ma che allo stesso tempo ti fanno rischiare la vita in ogni secondo. Joel, nello specifico, apparirà come quello più “squilibrato” di tutti, alla ricerca costante dell’eccitamento pensare alla sua vita come a un qualcosa che potrebbe finire da un momento all’altro, mischiato alla possibilità di poter avere, con l’aiuto di Lee, quella che finirebbe per essere la fotografia più pagata del momento: la morte del Presidente.

Un’altra critica, che non condivido assolutamente, va a toccare i temi presenti nel film, nello specifico, alcuni si lamentano sul fatto che i concetti della guerra sia appena abbozzati e che non si capisca fino in fondo chi sia nel giusto e chi nel torto e, che soprattutto, all’interno di queste rivolte, spesso anche i “buoni” risultano compiere azioni assolutamente crudeli. La critica quindi si spinge sull’ideologia del film, che appare carente, quando io invece l’ho trovata il suo punto di forza. Non stiamo guardando un film sulla guerra di secessione in America, stiamo guardando quattro giornalisti che rischiano la vita per raggiungere la Casa Bianca. Il focus è completamente centrato sul loro lavoro e su quanto per alcuni più di altri, in questo caso Lee (dopo aver visto infinite scene di violenza che ancora le infestano la mente quando va a dormire) e Jessie (che è “nuova” nel campo), sia difficile eliminare il proprio io per cercare di salvare gli altri e decidere invece di immortalare la scena. Se rimangono vivi, possono promulgare le foto e la verità, se cercano di aiutare gli altri, non solo muoiono, ma con loro muore anche il messaggio che vogliono portare.

La maestria di Garland sta quindi nel donarci una storia vista con occhi che di solito non vengono analizzati nella storia dei film di guerra e appare giusto che alcuni concetti politici siano appena bozzati, perché va tutto letto tra le righe, così come dovranno fare Sammy, Lee, Joel e Jessie per uscirne vive e per procedere con la loro missione. La mancata descrizione letterale del background creato dal regista è funzionale, è nato appositamente così, per poter entrare senza remore negli occhi dei fotogiornalisti e vivere la loro esperienza come se fosse la nostra, ritrovandoci in un mondo in cui tutti pensano a uccidere l’altro e il vincitore è solamente quello che uccide prima di essere ucciso.

“You don’t know what side they’re fighting for?”
”Someone’s trying to kill us. We are trying to kill them.”

È per questo motivo che va fatto onore all’interpretazione di Garland, che si è concentrato sull’interiorità dei personaggi, rendendoli parte di un sistema narrativo che corre veloce e che non evita allo spettatore nessuno spavento, nessuna violenza, nessun dramma.

Civil War di Alex Garland vi aspetta al cinema dal 18 aprile 2024, distribuito da 01 Distribution, e si prepara già ad essere un film che sicuramente dividerà l’opinione del pubblico, ma chi lo amerà, lo amerà immensamente.

– Francesca

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